giovedì 6 marzo 2008

Coprofagia sanremese


Sanremo è un prepotente coacervo di puttanate per ultracinquantenni il cui elettroencefalogramma, se registrato nell'ambito di una qualsiasi fruizione artistica, ricorda il panorama visibile dalla facciata della Ghirlandina esposta a Nord. Non v'è un sussulto neuronale che elevi tale profilo dalla sua depressa piattezza, fosse anche solo per la lunghezza d'una modesta altura. Scolpito dalle plagianti trame sonore della musica leggera italiana dei decenni che furono, il gusto musicale del target medio di Sanremo sta alla crescita artistica italiana, come un carcinoma all'aspettativa di vita di un essere umano, o come uno stronzo di mammut di un quintale al livello d'igiene di un monolocale di 30 metri quadri. O, se preferite, come una slavina di pus eiettata nel piatto della propria conviviale sta alla possibilità di copulare con essa a fine serata. La visione di Sanremo crea immediata secchezza delle fauci, stitichezza interrotta, a tratti, da estemporanee scariche diarreiche di titaniche proporzioni che non lasciano il tempo di varcare la soglia del bagno e costringono a umilianti genuflessioni, nonché apparizioni mistiche accompagnate al desiderio più belluino di bestemmiare, il tutto condito da misantropiche escursioni nel dedalo di sensi di colpa che tale appuntamento catodico puntualmente provoca. Non è raro, infatti, chiedersi se tale sfacelo goffamente travestito da intrattenimento sia il risultato del proprio acritico stile di vita, con un processo mentale simile a quello innescato dalle pubblicità progresso che ci invitano a un consumo più responsabile di acqua ed elettricità. Il dubbio che anche noi si possa essere protagonisti di un collettivo e scriteriato consumo di idee e di buon gusto è solo la base di un rigetto peristaltico complesso e strutturato in chi ascolta tredici fottuti quintali di musica d'ogni genere, foggia e provenienza ogni mese per poi trovarsi a cogitare sugli squallidi commenti da Bar Sport (che Dio abbia in gloria ogni Bar Sport di questo cazzo di paese a forma di stivale) che il pubblico e gli addetti ai lavori sanremesi riversano nelle nostre orecchie. Tali sofismi musicofili, spesi, peraltro, su materiale fonodiarreico di siffatta portata, sono il corrispettivo sonoro di quella pletora di umanità che sono le tifoserie del calcio, anch'esse partecipi, assieme al target cui mira Sanremo, di un'unica grande missione, di un coeso moto di involontaria volontà popolare: l'immolazione della propria esistenza sull'altare della più becera, fastidiosa, cafona e acritica inutilità. E adesso, scusate, vado a spararmi una pippa.

venerdì 23 novembre 2007

Racconto - Scorsoio


“Descrivermi come persona levantina sarebbe errato. Io commercio sì la mia immagine, ma non lo faccio per un tornaconto personale che gonfi le tasche dei miei pantaloni e, perché no, inturgidisca la patta dei medesimi. Sono solo una biblica statua di sale. Mi sono girato, ho visto l’orrore divino di fuoco e fiamme, ho visto le anime ardere al licenzioso desiderio di empietà, ho visto le loro membra allungarsi verso organi lambiti da lingue di fuoco, ho visto orbite ignee scavate da dita roventi e ora eccomi qua, cristallizzato, fragile e sottoposto al battente alito del deserto come un totem sotto foggia di monito”. La giornalista mi guarda vorace. Ha zigomi e mascella forti ed è munita di una bellezza non tanto manifesta nella propria sfrontata perfezione, quanto suadente nella propria sfuggevolezza e opinabilità. A seconda dell’espressione che quel volto indossa e dei chiaroscuri che su di esso la luce intesse, ella assume a tratti fattezze di ninfa, a tratti di satiro, in un altalenante gioco di seduzione e repulsione che me la rende ancor più desiderabile e mi ricorda, in modo doloroso, la mia vita prima di tutto questo. La troupe televisiva alle sue spalle mi adocchia con dissimulato disgusto. Durante i cinque minuti occorsi loro per montare l’attrezzatura tra la porzione di pavimento occupata da scatole di filo interdentale usate e quella su cui languono frammenti di pane raffermo, ora dimora di una colonia d’irrequiete blatte, ho notato che il cameraman, il più giovane del gruppo, è stato vittima di conati piuttosto violenti. Solo il tagliente sguardo della giornalista lo ha riportato all’ordine e lui, ubbidiente, ha domato le sue olfattive repulsioni. Lo stereo propaga nell’etere le sulfuree note di Devil Circle dei Cracow Klezmer Band. Quest’atmosfera da suk mediorientale, tra liquami rappresi e crinali d’eterogenea immondizia, tra screziature di oli essenziali sparsi sulle pareti a creare mappe ancestrali di continenti ancora inviolati, tra declivi di escrementi e mobili in legno pregni di marcescenza, ci porta nel cuore una stilla di paradossale malinconia.

“La prego, continui – mi dice la giornalista muovendo le mani quasi a seguire una danza d’odalisca sulle terse note del violino – Desideriamo capire e lo stesso il pubblico a casa”.

“Il pubblico a casa non è certo lì per capire, desidera solo allungare la cena con un dessert a base di sordido e squallore”

“Sono sicura che preferiscano capire – reclina il capo pensosa – Ma torni alle origini. Perché lei si è rinchiuso, perché nega il mondo e la sua fisicità?”

“Io non sto negando nulla, semplicemente mi tira il culo fare. Voglio dire, non sono qui per propinarvi qualche sofismo del cazzo sui grandi meccanismi che muovono il mondo e le nostre priorità di esseri umani. Niente di tutto questo”. Tossisco leggermente e una bolla di pus posta nella ruga d’espressione tra bocca e naso esplode riversando il suo rancido contenuto sul mio mento, dove si mimetizza alla perfezione tra i sedimenti di passate eruzioni cutanee.

“Cosa vuole dire?” mi incalza lei.

“Che mi tira il culo affrontare le attività quotidiane più comuni. Sto qua, mi nutro passivamente e lascio che tutto si accumuli fino al giorno della mia morte. Più o meno come voi”

“Lei così pensa?”

“Certo. Voi uscite di casa, osate varcare soglie più volte nello stesso giorno e svolgete mansioni e persino vi illudete di portarle a termine. Dopodichè morite senza avere risolto le vostre passioni, senza avere toccato una reale catarsi, senza aver posto conclusione ad alcunché. Per questo, la morte vi sembra un’insensata prospettiva nemmeno prospettabile prima dei 70 anni”.

“E lei ha una soluzione a tutto questo?”. Il fallico microfono che tiene vicino alla mia fetida bocca trema leggermente e vedo le sue pupille allargarsi. Qualcuno in mezzo alla troupe tossisce sommessamente, un altro si gratta il fondoschiena. Resto in silenzio per una decina di secondi, attendendo che una serie di preoccupanti palpitazioni si plachi. Il cane latra alle mie spalle. Sembra insofferente nei confronti di questi intrusi che hanno foraggiato il mio progetto con soldi sufficienti a farmi restare qua dentro almeno per un altro anno, anche se so che mi servirà molto meno tempo. Il robot muove per un istante il suo braccio meccanico. Sembra che quell’arto di metallo e liquidi industriali stia ondeggiando al mio indirizzo.

“Ma che ne so – sbotto eiettando farfalle di saliva sanguinolenta che atterrano sull’avambraccio della giornalista – Più di dirvi di imitarmi, non saprei che fare e ora via dal cazzo”.

La donna lancia uno strillo soffocato. Subito le passano un fazzoletto con cui si monda istericamente. Mi trafigge con occhi di ghiaccio pronti a lanciare innominabili strali. “Potete smontare – dice alla troupe per poi rivolgersi a me – E lei…si prenda pure i nostri soldi, la gente avrà di che divertirsi di fronte a un essere così disgustoso”

“Non più disgustoso del mondo” le rispondo. Accendo la televisione e, mentre escono in fretta, mi accingo a morire a ritmo di palinsesto serale.

giovedì 22 novembre 2007

I condilomi dell'anima

Non sono un nozionista. Tanto meno un accademico. Prima di tutto per mancanza di cultura e preparazione, in secondo luogo a causa del mio amore inveterato per l'improvvisazione e il pragmatismo. Lascio i sofismi al prossimo, a me resta l'arte del saper fare. Condisco i miei intenti di un'adeguata dose d'indolenza, spruzzo il tutto con abbondante accidia, rilasso gli arti, inarco la schiena, compio alcune volute in esoteriche geometrie e rimiro quanto ho appena creato con piglio boccaccesco. Rifletto sull'elevato coefficiente di testadicazzismo che mi porto appresso. Non ne posso più. Studiare è un tedio che dura ormai da quattro lustri. Io odio studiare. Odio scrivere. Odio mettere in moto i neuroni tra argini di conoscenze indotte, tra anse dottrinali, tra estuari ideologici, tra rapide demagogiche. Io e gli accademici non ci capiremo. Perché mi ispiro a gente non accademica. I miei maestri sono autodidatti e non sono nemmeno maestri. Sono vaghe ispirazioni, osmosi di sapere insufflate nei corpi cavi del mio torso, prese sotto non foggia di materia amorfa. Ecco tutto. E ora non mi rompete il cazzo. Per avere il pezzo di carta dovrò improvvisarmi accademico, almeno per i prossimi mesi. Ma non svelate il trucco proditorio. I condilomi dell'anima si asciugano meglio con arida pergamena d'ateneo. E non solo quelli dell'anima.

lunedì 5 novembre 2007

Battles - Mirrored


Davvero pensavate che mi sarei astenuto dal parlare dei Battles? Voglio dire, quest'anno, se si vuole apparire fichi, radical chic e à la page, è obbligo morale avere ascoltato, interiorizzato, digerito e amato fino al midollo spinale Mirrored dei Battles. Non ci son cazzi, cari miei! Il math rock adamantino degli Shellac è robetta (beh, non c'era bisogno dei Battles per capirlo...whops, boccuccia mia...) da smettere come un cappotto corroso dalle tarme. Adesso è il turno di questa nuova band americana, fresca fresca di 2007 e pronta a farsi strada fino ai padiglioni auricolari dell'elite mai abbastanza sazia di nuove tendenze all'avanguardia. Vuoi mettere? Pensate alla prossima conversazione che avrete con i vostri amici appassionati di musica. Nel momento in cui qualcuno avrà la brillante idea di vantare l'ascolto della versione rieditata di Tiger&TheDuke dei Sound Of Animals Fighting (povero ingenuo, povero fesso), voi potrete invece esibire questa prorompente scoperta. "Massì, è un quartetto math rock in cui suona un componente dei Don Caballero e l'ex batterista degli Helmet, hai presente? Esatto, quello paffutello, proprio lui, quello di Betty!". Insomma, una situazione salottiera che vi renderà adorabilmente snob ma, allo stesso tempo, ricercati e appetibili. Cercate di pronunciare queste parole indossando qualcosa di indie rock, magari un completo con pantaloni a sigaretta, cravattino filiforme e pullover smanicato a rombi. SARETE PERFETTI!


TECNICA
Limpida e usata con intelligente parsimonia. I Battles non hanno 20 anni e si sente. L'album è registrato con cura, i suoni sono raramente banali e John Stanier, per quanto sia, in quest'ambito, quasi irriconoscibile, è un batterista che apprezzo a prescindere. Non aspettatevi barocchi saliscendi di armonie, ma fate attenzione all'ingannevole struttura dei pezzi, che spesso si presentano sbarazzini, surreali, a tratti circensi, a tratti minimal pop, per poi prendere direzioni viscerali e tutt'altro che spoglie. Il tutto assume contorni di intelligente ed elaborata essenzialità, pur nella sua parziale incompiutezza, ma è un parere personale e arriva da un amante di atmosfere più sature. Il vero problema dei Battles è che rischiano di cadere nella vecchia trappola di chi ha deciso, quasi a tavolino, di creare "qualcosa di assolutamente nuovo". Questo riguarda, però , l'aspetto prettamente creativo di Mirrored, sul discorso tecnica guadagnano un buon voto grazie al loro rigore e alla loro sobrietà.
Voto: 7



CREATIVITA'
Mi spiace sinceramente scriverlo, ma proprio nell'ambito in cui i Battles hanno investito molto del loro impatto, falliscono. Non in modo totale, beninteso. I primi approcci a Mirrored regalano piacevoli momenti di approvazione, con un effetto sorpresa, però, in parte inficiato già al terzo/quarto ascolto. Non si tratta della prevedibilità delle loro idee, che mantengono, anzi, il pregio di distinguersi in un mercato così inflazionato quale quello dell'indie rock d'avanguardia, ma piuttosto del cuore, dell'anima della loro musica. Un'anima che manca, dannazione. Mirrored è privo di cuore. Il suo battito procede a balzelli e non convince. Tutto è troppo artificioso, programmatico. Sembra che i quattro ragazzotti si siano ritrovati in sala prove e si siano detti: "Ecco, qua ci ficchiamo il riffetto fighetto di chitarra che fa molto math rock, qua il loop di voce con pitchshifter che, per forza di cose, farà molto Battles, quello che diventerà, insomma, il nostro marchio di fabbrica...ecco, a sto punto, invece, ci ficchiamo la ballatina surreale minimal pop, qualche reminiscenza alla Morricone con quelle voci in falsetto che si rincorrono ed ecco che ci siamo assicurati il titolo di album più originale del 2007". Un po' troppo facile, anche se canzoni come Race In e Race Out, guarda caso proprio la cornice dell'album, sono davvero efficaci. La sufficienza è dietro l'angolo e penso che la potranno raggiungere se sapranno mettere qualcosa di più di loro stessi, un po' più di umanità, tanto per intenderci, nel loro prossimo lavoro. Del resto, ci vuole anche cuore, non solo competenza. Beh, secondo il mio modesto parere, ovvio.
Voto: 5,8


CARISMA
Difficile definire il carisma di una band di questo tipo. Si tratta, sicuramente, di un carisma ossessivo, fortemente voluto, alimentato da un forte desiderio di distinzione dal prodotto standard del mercato musicale odierno, ma il rischio del caro vecchio "du' note e una scurreggia" (dovevo scriverlo anche in sta recensione, semplicemente dovevo) è presente. Intendiamoci, in realtà è evitato da una notevole quantità di idee concrete e dal fatto che DAVVERO il suono dei Battles si differenzia e senza neanche troppi mezzucci (qualcuno sì), però, non so...il mio problema nei confronti di questa musica è che la vedo tristemente rappresentativa di una tendenza generazionale all'artificiosità, al pretestuoso, della serie "siamo superalternativi perché lo decidiamo noi prima degli altri e se non ci capite è perché non siete all'altezza". Mah, arrogarsi il diritto di affermarlo non dovrebbe essere prerogativa di nessuno. Poi, beh, magari mi son fatto qualche proiezione di troppo io e i Battles sono quattro ragazzotti umilissimi e alla mano. Lo spero. Anche qua, comunque, siamo a un passo dal 6 e questo perché, nonostante non mi piaccia l'approccio, il risultato è al di sopra della media.
Voto: 5,7



CONCLUSIONE
Se pensate che i Battles siano la ficata avant-sticazzi-garde indie rock più peserrima degli ultimi anni, dategli una bella smontata ascoltando The Lemon Of Pink dei Books (che mischiano voci e ritmiche campionate a strumenti suonati in modo simile ma con risultati, secondo me, superiori per originalità e qualità compositiva). Con questo non voglio dire che i Battles siano una band da bocciare, tutt'altro. Un afflato di sincero trasporto è udibile fra le trame sonore di Mirrored ma...è appunto solo un afflato. Il resto è sedicente sperimentalismo di classe confezionato da mani indubbiamente capaci. Lo so, sembra che li detesti. Non è così, qualora capitassero in zona, li andrei a vedere volentieri. Più o meno.
Voto: 6,3

Mahavishnu Orchestra - Birds Of Fire


Chiariamoci subito: io non sono un passatista musicale del menga. I passatisti sono una razza che si nutre di vetusti ricordi racchiusi in forzieri la cui inviolabilità è garantita da una genia di eterni nostalgici. Costoro, racchiusi in anemiche livree appartenenti a ere geologiche aliene al presente, snocciolano il loro sapere con incrollabile saccenza (un po' come me ma senza chiose imbecilli tra le parentesi) e liquidano qualsiasi prodotto musicale successivo al 1973 (anno di uscita di Dark Side Of The Moon) con una scettica alzata di spalle, quasi sempre indice di profondo disprezzo. Ecco, questa recensione dovrebbe (ripeto, DOVREBBE) soddisfare i loro timpani avvezzi all'analogico fruscio dei giradischi. Mi accingo a parlare, infatti, dei Mahavishnu Orchestra, un eccentrico collettivo di musicisti che, tra la fine dei sixties e la prima metà dei seventies, pose le basi del rock fusion psichedelico. Due dei baldi trentenni che diedero vita al progetto furono il grande Billy Cobham (già batterista di "un certo" Miles Davis) e il mediamente grande John Mclaughlin, non esattamente la vera anima della band, ma di sicuro il collante che la tenne insieme un numero sufficiente di anni per produrre alcuni album a dir poco eccezionali. Fra questi, merita particolare attenzione Birds Of Fire (per la gioia dei passatisti, pubblicato proprio nel 1973). Si trattò del periodo di maggior fulgore dei Mahavishnu Orchestra, lo stesso in cui si esibirono in una serie di concerti al cardiopalma, oggi vere e proprie pietre miliari per ogni appassionato di psichedelia. Scioltisi nel 1976, tornarono con una formazione totalmente diversa, fatta eccezione di Mclaughlin (proprio quello tecnicamente più scrauso, ma è un parere personale e non riguarda le sue idee, quasi sempre ottime), che produsse nuove ardite registrazioni, ma non con la prorompente convinzione della formazione originale. Ma ora vediamo perché Birds Of Fire spacca il culo.


TECNICA
Massì, son bravi braverrimi ma, ragazzi, erano pur sempre gli anni '70. Voglio dire, l'album è infarcito di sporcizia sonora, imprecisioni e i vigorosi virtuosismi che avrebbero caratterizzato la tecnica sopraffina di tanti musicisti a venire non si era ancora affacciata sul mercato del rock sperimentale. Non ci son cazzi. Bisogna ammettere che Billy Cobham, con il suo doppio pedale, era un discreto precursore (anche se tale optional si era già visto in giro a partire dagli anni '50), il tastierista Jan Hammer faceva un uso generoso del suo synth e il violinista Jerry Goodman (che dio lo benedica, un musicista ECCEZIONALE) si avventurava in bizzarri assoli con il wah , ma il tutto non era certo eseguito con la pulizia per cui altri, in periodi successivi, si sarebbero fatti ammirare. Il plauso, comunque, resta. Averne di papà così.
Voto: 6,8


CREATIVITA'
Ed eccoci al nocciolo della grandezza dei Mahavishnu Orchestra. La prima volta che sentii Birds Of Fire, dovetti sincerarmi subito dell'anno della sua pubblicazione e, una volta fatto, rimasi di stucco, perché, se non fosse stato per la qualità prevedibilmente bassa della registrazione, mai avrei pensato che tali idee fossero state partorite 6 anni prima della mia nascita, quando ancora i miei scorrazzavano per prati verdi con pantaloni scampanati e vestitini in flanella con decorazioni floreali. Basta ascoltare la title track d'apertura per rendersi conto che quel riff di chitarra in loop che apre il pezzo è stato precursore non solo di infinite idee simili, ma di un nuovo modo di comporre e concepire il rock psichedelico, progressive e, più tardi, alternative. Dai, eccheccazzo, le idee dei Mahavishnu le potete sentire nei Pink Floyd come nei Chemical Brothers, nei Mars Volta come negli Ozric Tentacles, nei Franz Ferdinald come nei Lost Prophets (beh, ok, magari in questi ultimi due no). Avete presente quel tipo di band che parte con un riff superfico portante e che, su di esso, costruisce un'interminabile sequela di improvvisazioni psichedeliche (o di successioni sonore, abusatissime nell'elettronica big beat anni '90, ma non solo) intervallate da qualche bridge intrigante che spezza e conduce il pezzo a una conclusione esasperata? Ecco, tutto preso dai Mahavishnu. Poi, beh, ognuno può saltarsene su con mille esempi simili, anche precedenti a loro, ma difficilmente mi convincerà del fatto che altri abbiano anticipato i tempi con tale sorprendente estro e, soprattutto, che le loro idee abbiano tardato tanto a invecchiare da risultare, a oggi, ancora così efficaci. Non solo in tanti della nuova generazione provano sorpresa ascoltando i Mahavishnu, ma proprio non li capiscono. "Oh, maccheccazzo è sta roba sperimetale uscita quest'anno?". Abbello, quando questi suonavano, tuo padre portava i baffi alla Burt Reynolds, non so se mi spiego. Scusate la digressione, ecco il voto.
Voto: 8,2


CARISMA
Ammille. A palate. Saranno i ridicoli completi di John Mclaughlin, le forsennate cavalcate ritmiche di Cobham, sempre accompagnate da quell'espressione basita che fa molto "siamo negli anni '70 e sono in estasi esecutiva hippy", sarà il cristologico piglio di Goodman, che dal vivo regalava brividi per la magnificenza con cui faceva ondeggiare il suo archetto, sarà anche la qualità granulosa delle registrazioni video, ma i live dei Mahavishnu Orchestra sono una vera goduria, uno spettacolo di estetica seventies che più cool non si può, di quelli che t'invitano ad abbracciare un sitar e ondeggiare sulle onde di un mantra multicolore. E' buffo pensare a come meritino assai di più di essere riposte in muffose cantine anteguerra le quattro cazzatine finto sperimentali (e ormai abusatissime) con cui si pavoneggiano certi sedicenti musicisti contemporanei, rispetto alle canzoni dei Mahavishnu. Della serie, guadagnamoci il carisma spaccando il culo, non con le solite du' note e una scurreggia (sarà bene che recensisca al più presto una band minimalista uscita ques'anno, sennò entro a far parte di diritto del club dei passatisti del menga citati a inizio recensione).
Voto: 8,2



CONCLUSIONI
Che ci volete fare, sono fichissimi. Devo essere sincero, se c'è una band in cui avrei voluto suonare in quel periodo (cosa impossibile per limiti tecnici e temporali, dato che sono un chitarrista mediocre e, soprattutto, non posso viaggiare nel tempo), avrei scelto a occhi chiusi i Mahavishnu Orchestra. Passi il nome ridicolo e pretenzioso, il resto è grande storia della musica moderna e Birds Of Fire ne è parte in qualità di, forse, miglior album in studio della band. Ed ora smettete di leggere, dannazione, e andate subito a procurarvelo.
Voto: 8

Racconto - Greg Sylvian (esaustiva summa del morboso)


TRACCIA 1 – EDONISMO SPICCIOLO


Il signor Bosom è un gran mangiafica a tempo perso. Lo hanno visto a casa di Lady Godette con un mazzo di rose bianche sotto braccio e una scatola di cioccolatini al benzene stretta nella mano. Nella veranda di Sir Plastico non c’è ombra di igiene e Dr. Linus se ne avvede con gran sconcerto. E’ il party più fallimentare del secolo, è innegabile. Mr Bosom è appollaiato sul davanzale di una finestra, dall’altra parte dello sgargiante giardino di casa Plastico. Tutta la crème è intenta a intrattenersi con aneddoti e storielle di varia foggia e incostante credibilità. “Non c’è più senilità nel portamento di Balestra. Eravamo in tredici a sostenerlo e sono la sola sopravvissuta. Una ragione deve esserci, non trova, Dr. Linus?” L’uomo si desta in quell’istante dall’attenta osservazione degli invitati. “Ehm…certo Jasmine. Lo penso anch’io.” L’anziana donna ride coprendosi pudicamente la dentatura rifatta di fresco. “Voi sapete sempre divertirmi, che uomo eccentrico siete. Intendevo, trovate che ci sia una ragione nel fatto che sono ancora viva?”

“E’ evidente che siete estremamente anonima, mia cara.” Le rivolge un sorriso gelido e lei si scioglie. Preme una mano contro il petto rugoso e saluta distrattamente un uomo obeso e orribile. Intanto Mr. Bosom sta dando fondo alle riserve di Cristal del padrone di casa. Porta i suoi sessant’anni malissimo e la ragione è più che chiara. Karen lo avvicina e lo sfiora con guanti di raso. Sono amanti da un paio d’anni. Lei ha al massimo quarant’anni, portati benone. Sarà la chirurgia plastica, sarà la palestra, ma tutti se la vorrebbero filare. Nell’ultima ora l’atmosfera si è appesantita. Arrivano voci che la festa sia stata spostata fuori dalla villa a causa di una fastidiosa invasione di scarafaggi. Pare che la sola vittima sia stata la figlia di Plastico, una tenera fagottina di carne. “Mio Dio, povera creatura…” Jasmine ha gli occhi lucidi. Estrae un fazzoletto di seta dalla borsetta di Prada e asciuga quel poco di umido che è riuscita a produrre. “La vita continua, mia cara. Piuttosto, sono preoccupato che quelle bestiacce possano raggiungere le auto parcheggiate qua fuori. Sarei molto contrariato se dovessi rincasare con le gomme masticate da quegli abomini.”

“O Signore! Avete ragione, Dr. Linus! Devo avvertire il mio autista.” Tenta di comporre un numero sul satellitare, ma non le riesce. Chiede aiuto a un cameriere e alla fine l’operazione ha successo. Dr. Linus si allontana annoiato. Raggiunge Mr. Bosom. Non c’è più traccia di Karen, ma l’attempato donnaiolo ha le labbra sporche di rossetto. Linus raccatta un tovagliolo dal tavolo del buffet più vicino e glielo porge. “Grazie, ma cosa…?”

“Il rossetto. Sarebbe bene che evitassi queste cose in pubblico, anche se stasera tua moglie non è presente.” Bosom si pulisce con cura e poi getta al volo il pezzo di stoffa sul vassoio di un cameriere di passaggio. “Fatti i tuoi, Linus. Sono vecchio e malmesso e la prostata mi sta lasciando. Me la godo finché posso. Fai lo stesso anche tu. Solo perché sei dieci anni più giovane non significa che durerai per sempre.” Gli strizza l’occhio beffardo e ingolla l’ennesimo bicchiere di champagne. Si dirige barcollando verso una donna che sta riempiendo il suo piattino di tartine di carne di struzzo. Le avvicina la bocca alla nuca e le alita nell’orecchio qualcosa di simile a: “Mia cara, sei dolce come sperma caldo, vorrei mungerti senza pietà. Quella la conservo per i momenti in cui mi tiro le seghe, che sennò rischio di strapparmelo.” Dr. Linus ignora la scena e si porta fino alla veranda. L’interno della casa è silenzioso e le luci sono tutte accese, nonostante non si scorga anima viva all’interno. L’impianto stereo manda Take this bottle dei Faith no more. Varca la soglia senza indugio e avanza seguendo le forme del costoso tappeto persiano che occupa buona parte del pavimento della sala. Una scala in marmo bianco porta a un soppalco su cui si affacciano altre porte e l’entrata dello studio dove lui e Plastico hanno discusso più volte sulle sorti del pianeta dopo la scomparsa di Tom Jones. Sta per uscire per cercare l’autista, quando un lamento seguito da un tonfo attirano la sua attenzione. La traccia finisce in quel momento e dal lettore cd esce improvvisamente The gentle art of making enemies. Il ritmo incalzante aumenta i suoi battiti cardiaci. Sale le scale, gradino dopo gradino e avverte un altro suono, violento e altre grida, in parte coperte dalla musica. Si appropinqua all’entrata dello studio e si affaccia. Sir Plastico è chino, di spalle, sulla scrivania. Sta lavorando su qualcosa con gran lena, a tratti bestemmia a voce alta e batte il pugno sulla radica del mobile. Linus fa per chiamarlo ma in quel momento nota un particolare disgustoso ai piedi dell’amico. Il parquet è cosparso dai corpi di decine di scarafaggi enormi, tutti morti, a parte un paio che ancora agitano le zampe e tentano di raddrizzarsi dalla posizione supina. Nello stesso istante una mano lo afferra a una spalla. Con una flessione che gli procura una fitta alla schiena ruota su sé stesso, ma qualcuno lo immobilizza con eccezionale vigore e un’altra mano gli serra la bocca. Mugugna qualcosa e due occhi azzurri da tedesco lo fissano pazienti. L’uomo, alto, biondo e colossale, gli fa cenno di fare silenzio e lo trascina lontano dallo studio, vicino alle scale. Appena si allontana da lui, nota la tuta sozza e un inconfondibile stemma cucito all’altezza del petto. “Lei è della disinfestazione, giusto?”

“Esatto, piacere, sono Gunther.” L’accento dell’uomo non lascia dubbi sulle sue origini. Gli porge la mano ma Linus non accenna nemmeno a stringerla. “Non mi sembrava il caso di comportarsi così, conosco Sir Plastico molto bene. Avrò modo di lamentarmi di lei, mi creda.” Gunther china leggermente il capo. “Mi spiace, ma stava per disturbare un uomo sofferente. Lo lasci da solo con il suo dolore, la prego.” Linus infila una mano nella tasca interna della giacca e prende un sigaro. Lo accende noncurante e osserva i particolari della casa come fosse la prima volta che vi entra. “Che dolore, scusi? La scomparsa della figlia, forse?”

“Esatto, la prego, venga.” Linus si avvia, poi si ferma. “Cosa sta facendo, adesso? L’ho visto sezionare quegli scarafaggi, non comprendo…” Il disinfestatore scuote la testa e si fa più aggressivo. “Non sono cose che la interessano!”

“Oh no! Invece lo interessano. Gunther, lascialo passare.” Lo sguardo spiritato di Plastico che ora li fissa dalla porta a doppia anta dello studio li coglie entrambi impreparati. Gunther guarda Linus per l’ultima volta, contrariato, e scende le scale con una scrollata di spalle. “Vieni, Linus, amico mio.” Linus si avvicina scettico e intimorito. “La riavrò, capisci? Anzi, la sto già riavendo. Vieni.” Entrano nello studio. L’odore è dolciastro, pessimo. I corpi degli insetti sono esposti a pancia aperta, gettati in ogni angolo da un’isteria non comune a Plastico. Un secchio capeggia sulla scrivania, fiancheggiato da un sacco di plastica colmo di orridi cadaveri d’insetti. L’afrore proviene da lì. “Vieni.” Il padrone di casa lo sollecita di nuovo. “No, non credo di poter…” Sudore ora cola copioso sulla fronte di Linus e deve passare la manica sugli occhi per evitare il bruciore. “…ehm, di poter…” Plastico gli sorride, le rughe gli deformano i lineamenti. Gli occhi emanano una luce distante, quasi assente, i baffi lo rendono stranamente ferino e le mani, le mani sono lorde, unte, le unghie annerite. “Di poter cosa, amico mio?”

“Di poter reggere ciò che mi vuoi mostrare. Mio Dio…tu la stai estraendo da ognuno di loro…Mio Dio, cosa…cosa stai facendo, smettila, per favore…” Plastico gli si accosta e fa per toccarlo. Linus si allontana con un salto. Una morsa gli prende lo stomaco. Chi gli sta di fronte non è Plastico. E’ un uomo molto somigliante, vestito allo stesso modo. Solo ora nota i capelli raccolti in una coda stretta, quasi nascosta, dietro la testa. “Lei chi è? Chi cazzo è lei?”

“Dovresti saperlo, figlio di puttana, dovresti saperlo benissimo. Io sono il timore che la finanza ti faccia visita e scopra i tuoi altarini. Sono l’indifferenza dell’emorroide che ti morde le carni del deretano nelle notti insonni e dolorose in cui maledici i tuoi medici. Sono il carcinoma informe che ti cresce dentro ma che non confessi. Sono la fica di tua moglie che si presta a tutti tranne che a te, sono il sipario che si cala ogni volta che il grottesco ha la meglio su tutto, sono la nera pece che dal proscenio cola abbondante sugli spettatori nel momento del monologo decisivo, sono l’ircocervo, la chimera, sono Greg Sylvian e tienilo bene a mente, perché mi piace perseguitare chi mi teme e tu ora te la stai facendo sotto.” Linus si volta e comincia una folle fuga verso l’ingresso di casa. Urta il passamano e zoppica giù per le scale con il cuore che minaccia di scoppiare. Raggiunge il giardino e drappelli di persone lo osservano esterrefatte. E’ zuppo di sudore, scarmigliato e rosso in volto. Jasmine gli corre vicino e lo sostiene leggermente. “Cosa succede, caro? Hai visto Plastico?” Senza una parola ricomincia a correre e scompare dalla vista di tutti.




TRACCIA 2 – FETICIDIO FETICCIO




“Porgo alla cortese attenzione di sua maestà epilessia una questione estremamente spinosa: le donne sono tutte dissolute?” Il cortigiano Johnny si scaccola e ascolta assorto, passando il dito sozzo tra le trame del suo mantello. “Certo che no, succube…semmai potremmo definirle quintessenza del morboso.” Si alza e porge un calice colmo di letame a sua sorella. Lei trangugia in silenzio e per un lungo momento tutti i presenti nella sala del consiglio osservano imbarazzati. Il deretano supremo, scrivano eccellente, interviene di nuovo. “Sì, mio signore. Tutto ciò è disgustoso. Seguitate, vi prego.” Il cortigiano Johnny si alza dal trono e si avvicina alla gabbia dei fringuelli. Si masturba alacremente e tenta di colpirli con lo sperma. Quelli svolazzano isterici e uno finisce sul fondo, invischiato nel liquido seminale. “Il sesso è una trappola. Un congegno malefico fabbricato per irretire ogni creatura senziente e procurarselo senza coinvolgimenti emozionali è la sola soluzione che rende l’uomo libero. Gelidi e falsi saranno i nostri figli se noi sapremo educarli con sodomia e saggezza.” Alza le braccia al cielo e luce densa, angelica, lo colpisce accecandolo. Preme le mani sul volto strillando e si accascia tra le vesti che lo ricoprono nascondendone la forma. Lo scrivano accorre con le lacrime agli occhi. Solleva il pesante mantello d’ermellino e del cortigiano non è rimasta ombra. I guerrieri, le dame, la folla tutta rumoreggia e diverse bestemmie echeggiano nel vasto ambiente. “Era il solo che io amassi con furore. Necessito una scopata seduta stante.” Il deretano supremo afferra rude la sorella del defunto reggente e la penetra attraverso le vesti. Lei attende tregua per sollevarle, silente. Tredici segugi si affacciano dall’entrata e copulano schizzando un gruppo di giullari falliti. Nessuno ride e la cinepresa compie una panoramica dei volti meno significativi, tutti primissimi piani impietosi che rivelano rughe e imperfezioni. Un’odiosa tarantella giunge dall’esterno e una mandria di ballerini sconnessi fa la sua comparsa tra i fischi dei presenti. Un giovane nudo si fa largo tra la folla e raggiunge il trono. Vi sale sopra e, orinando sull’arazzo reale, grida: “Amo amare l’amaro di questa epicondinite cronica. Amo l’assolo ombroso che mi procuro negli interstizi viziosi di tempo che ritaglio in fellatio recondita e infarcita di melliflua sostanza che cola e cosparge e nutre e uccide quei potenziali similmente creati al sigillo apostolico che mi trattiene dall’essere pura essenza di lanugine adolescente e sciente. A volte piango assieme, a volte privo, eppure la sola junk figure che sollazzerei è la ricrescita di peluria inguinale.” Una ragazza calva lo afferra e lo proietta verso la gabbia dei fringuelli con una mossa di arti marziali. La struttura di metallo viene divelta dal corpo in volo e tutti gli uccelli si esibiscono in un volo coordinato sopra le teste di un drappello di nani sfigurati dall’incendio al bordello del mese scorso. I volatili compongono una vagina pulsante, poi prendono la forma di un tridente. Una finestra va in frantumi con incredibile frastuono e un vecchio con una bottiglia di assenzio in mano e una torcia nell’altra bercia qualcosa d’incomprensibile e sputa un cono infuocato. I fringuelli cadono arrostiti uno dopo l’altro e i furetti sodomiti del grano lottano a colpi di verga per mangiarne le carni. Nel mentre, un uomo con il volto coperto da un saio si rivela e tutti riconoscono Greg Sylvian. Allarga le braccia e lascia che i fedeli gli bacino le mani e i piedi scalzi. Un negro gli ghermisce i lunghi capelli e tenta di sodomizzarlo. Greg lo rende innocuo con l’apposizione delle dita sul suo scuro scroto. Si rivolge alla ragazza calva che ora si è appostata sul trono e lo fronteggia con braccia premute sugli enormi seni. “Oggi ho scoperto una fungiforme escrescenza sul mio ombelico. E’ il segno che devo darmi al funk e smettere di riempire i miei dischi di quella informe congerie di influenze etnico psichedeliche.” La figura femminile della calva si rivela in tutto il suo splendore quando la tunica da lei indossata si dilegua sotto forma d’una donnola bianca. Una russula sporge dal suo addome e l’ombrello pulsa passando dal rosa carne al rosso fulgido. “Sylvian, sapevi della mia venuta e così ti presenti nella speranza, fondamentalmente, di scoparmi, giusto?” L’uomo avanza a passi lenti, seguito dai fedeli, che come sanguisughe rimangono arpionati a ogni sua falange. “Parli bene, o mia potenziale concubina. Vieni e fammi una pompa, qui, davanti a loro, in modo che comprendano la vera essenza del peccato.” Il giovane ignudo si alza dalle macerie rugginose della gabbia e mostra con orgoglio le mille piaghe procurategli dalla flagellazione delle sbarre divelte. Punta un dito smangiato su Greg e sentenzia: “Non c’è peccato più totale e originale dell’astinenza. Non c’è immondezza che del triviale piacere del procurar dolore dia più ebbrezza. Non c’è e pare mai ci sarà maggior sadismo del causar di massa irreversibile isterismo. Pasto più frugale non c’è della marcescente consapevolezza del singolo di essere mediocre e casuale. Vorremmo tutti essere indispensabili e invece matrioske cipollose esposte a disseccare come farfalle al chiodo lo sono più di noi.” Un villico peloso e dai tratti scimmieschi matta il giovane con un fendente alle spalle che non gli lascia scampo. In pochi secondi il suo corpo viene macellato e divorato dai tredici segugi che subito si dileguano scodinzolando. La calva osserva e ride scuotendo il capo e massaggiandosi il clitoride a velocità disumana. Sylvian coglie l’attimo e la inchioda con mani d’acciaio ai braccioli dell’enorme seggio. A turno lui e i fedeli la trafiggono al basso ventre e lei si contorce come un serpente. Morde e colpisce a caso e apre una ferita nel braccio di Greg, che però non desiste dal penetrarla. Un’onda di calore investe l’ammasso di corpi e molti si gettano a terra in preda alle fiamme. Il capo spirituale spegne il fuoco che gli arde i capelli nella sputacchiera sotto il trono e riemerge coperto di saliva, muco e catarro. I suoi lacchè si fanno da parte spaventati e si rannicchiano stringendosi fra di loro. Tutti fissano esterrefatti il vecchio con l’assenzio che fronteggia Sylvian. Ha la bocca colma di liquido infiammabile e avanza con le gambe allargate, pronto a scattare a un minimo movimento di Greg. Quello si esibisce in un sorriso malevolo e spalanca ancora le braccia piene di succhiotti. “Vecchio, non essermi nemico e scopati questa fresca giovane dalle labbra turgide.” Il vecchio deglutisce l’assenzio. “Quella è mia madre, maiale!” Il suo colorito cianotico quasi riflette la fiaccola che brandisce con rabbia. “Comprendo, o Edipo feticcio, comprendo. Ascolta, ti propongo un affare da non rifiutare. La mia vita per quella di tua…” Osserva la splendida fanciulla alzando un sopracciglio. “…ehm, tua madre con la mia. Questi pezzenti puoi anche divertirti a farli a pezzi. Anzi, ti pregherei di farlo. Da quando hanno imparato a leggere mi sento in pericolo, dato che gli scritti che conservo nelle mie stanze sono di vitale importanza per la perpetuazione del culto e che uno dei suoi punti di forza è l’ignoranza dei fedeli.” Lancia un’occhiata severa ai villici tremanti intorno a loro. Il vecchio ingurgita altro liquido etilico e appronta la fiamma davanti alla bocca. Sylvian corre in ogni direzione e quando cerca rifugio tra i fedeli questi lo respingono come fosse un lebbroso. L’attempato guerriero continua a puntarlo e all’ennesima spinta di uno dei suoi, Greg si trova scoperto e in mezzo alla stanza una nube d’alito incandescente lo investe. La sua figura prende fuoco dalla cintola in su e le urla dell’artista si fondono agli applausi della folla. Alcuni aprono pacchetti di Fonzies, altri cucinano marmotte scuoiate, ma i più spariscono in fila indiana lamentandosi per il prezzo troppo alto del biglietto. La ragazza cinge il vecchio e rimangono abbracciati piangendo per molto tempo. Senza indugiare oltre la scena cambia e con essa i giochi di luce.




TRACCIA 3 – INSETTI


Siamo in pieno inverno e colonnette di ghiaccio adornano gli stipiti delle finestre di una modesta casa di campagna. Un bambino fissa la brughiera, malinconico. Ha sentito che quest’anno non ci sarà né primavera né estate. Glielo ha detto suo padre durante l’ultima uccisione propiziatoria del capro espiatorio. “Le interiora parlano chiaro” gli aveva detto. “Possiamo scordarci la bella stagione, per quest’anno. Saremo costretti a scaldarci dormendo nelle pance delle vacche appena scannate. E quando tutto questo sarà finito ci ritroveremo pieni di dolori reumatici dovuti all’umido di quelle budella.” E lui si era rifugiato nel granaio, alla ricerca di quei topini appena nati che il gatto aveva tentato di stanare senza successo. Ora è nella sala da pranzo e sua madre sta preparando lo stufato. Indossa la giacca e sistema i gusci di scarafaggio sotto i piedi, per non affondare nella neve. Si reca nel granaio e mentre attraversa l’aia intravede le galline, raggruppate come acini d’uva, sulle mensole del pollaio. Entra nel capannone ed estrae il fucile che ha nascosto mesi addietro nel vano tra un’asse smossa e la parete esterna. Accende le torce per illuminare l’ambiente e subito un’ombra si staglia enorme sul soffitto. Il bambino trasale e preme il grilletto. La gragnola di pallini si pianta in un palo, tra le balle di fieno. Percepisce un veloce raspare lungo le pareti. Una forma nera compare per un attimo dietro una mangiatoia. Spara di nuovo e un tonfo sordo segna la fine del trambusto. Si avvicina all’origine del rumore e trova il corpo di un enorme scarafaggio, lungo due metri. I proiettili lo hanno quasi divelto. Afferra un forcone e comincia a separare il carapace. “Ben fatto, bambiiiino…” Si gira di scatto, membra tese e respiro affannoso. Spazia con lo sguardo, ma non individua altra presenza oltre la sua. Sistema il fucile sulla spalla, pronto a far fuoco e avanza fra i trogoli disposti in file parallele. “Hai pauuura?” La voce è sottile, quasi assente e si perde in un riverbero indefinito che non permette di comprenderne la provenienza. “Lo sai chi era quello? Sì, sì. Era tuo…”

“Zitto! Zitto!” La deflagrazione dell’arma porta di nuovo il silenzio. Il bambino è rosso in volto per lo sforzo di gridare così forte e tiene la canna rivolta verso l’alto, ancora fumante. Avanza tremando, punta il fucile in ogni direzione e avverte ondate di adrenalina che gli fanno pulsare il cervello. “Inutile cercarmi. Semmai, mi mostrerò io. Io sono il supremo, bambiiiino. E ti voglio, oooora. Rinascere è venire una seconda volta, è la negazione della divina eiaculatio precoooooox che ci ha messi tutti al mondo e io voglio farti rinascere. Sarà indoloooooore…”

“Cosa vuoi? Perché me? Io faccio solo quello che mi dice mio padre!” La voce si fa più vicina, sembra a pochi passi da lui. “Tesooooro…tu hai appena ucciso tuo padre.” Il bambino scatta di lato e spara verso un mucchio di fieno. Ora sente chiaramente un qualcosa di fulmineo al galoppo lungo le pareti e in avvicinamento. Apre il fucile e cerca a tentoni le cartucce, non le trova, si china e vede che gli sono scivolate dalle tasche, allunga la mano per afferrarle, le infila alla disperata, schiuma alla bocca per il panico, chiude l’arma, occhio vitreo, ogni respiro un singulto di terrore, alza lo sguardo e vede. Una zampa lo arpiona e gli stacca le mani di netto. Il sangue zampilla a fontanella. Le urla si mischiano al dolore, quasi chirurgico, nevralgico. La faccia distorta in un ghigno di Greg Sylvian lo sovrasta. Ride sguaiata e non cessa di ondeggiargli davanti, sostenuta da un corpo vermiforme di nemertini. Si muove più vicino trascinandosi dietro un cilindro bianco lungo alcuni metri, ricoperto di pustole nere. “Ti ho preeeeso, ti ho preeeeso, ti ho preeeeeeeso, ti ho…” La nenia martella costante, il silenzio sembra non giungere mai. Invece, come sempre, arriva.


TRACCIA 4 – NEFROSI DELLA MENZOGNA



Un uomo in completo elegante è seduto davanti a un tavolo con cassetti, vecchio e scrostato. Tre individui gli stanno di fronte. Non ne distingue lineamenti e vestiario, dato che la forte luce di una lampada è puntata su di lui, ma si è fatto un’idea abbastanza chiara di loro. Sono probabilmente agenti in borghese. La stanza in cui si trovano è lorda e maleodorante. Ha notato che incisivi, unghie e fiotti di sangue cospargono e maculano la parete alla sua destra, un sinistro monito accompagnato alle catene rugginose appese a chiodi di fattura industriale russa. Il suo labbro è spaccato, come due degli incisivi superiori. Ha un occhio semichiuso e tumefatto e cravatta e camicia macchiate di rosso. Ha un aspetto orribile, già lo immagina. Li ha pregati subito di lasciare perdere il volto, ma non l’hanno ascoltato. L’agente 1 appoggia la mano al tavolo e si sporge verso di lui. “Signor Presley, si decida a parlare e noi saremo ben contenti di lasciarla alle sue preziose mansioni sociali.” L’agente 2 fa strani cenni con la testa. “Verissimo, verissimo. Lei ci dia quel che cerchiamo e noi la premieremo con immediata liberazione e totale scagionamento.” L’agente 3 gira attorno alla scrivania e gli si accosta portando la faccia alla sua altezza. Ha zigomi sporgenti e la pelle delle guance sembra sia stata sottoposta a innumerevoli lifting. “Abbiamo letto tutto su di lei, siamo al corrente di ogni particolare.” L’uomo abbassa lo sguardo. “Tutto? Per esempio?”

“Per esempio della sua scappatella notturna al Leibniz con quel sordido sodomita arabo che vende filmini snuff.”

“Mio Dio…ma che state dicendo? Non conosco gente del genere!” L’agente 3 lo schiaffeggia forte abbastanza da farlo quasi cadere dalla sedia. “Animale! Inutile fingere. Abbiamo le foto, le testimonianze e quanto ci basta per incastrarti e immerdarti fino e sopra al collo.” L’agente 2 getta sprezzante un fascicolo sul tavolo. L’uomo lo prende, titubante, fissando l’agente 3 con timore reverenziale. Scorre le pagine e vede che le prime fotografie mostrano ville lussuose e gente facoltosa a bordo piscina occupata in festini orgiastici. Non c’è ombra della sua persona. Le immagini successive sono sfuocate e di pessima qualità. Si vedono uomini, evidentemente fotografati da grande distanza, che si scambiano valigie. Il luogo dello scambio, parrebbe un aeroporto, è sempre lo stesso, ma cambiano i vestiti dei soggetti e la luce. La sua presenza, ancora una volta, latita. L’agente 3 gli strappa di mano la cartella e la porge all’agente 2, poi afferra l’uomo per il bavero della giacca e lo scuote. “Allora? Allora! Non ti dice niente tutto questo?” Lui è sull’orlo delle lacrime. “Ma io non ci sono! Non vedete?” I tre agenti ridacchiano e si guardano complici. Il terzo lo percuote di nuovo. “Ci prendi per scemi? Eh? Avanti, dillo!”

“No, no! Io…non vi prendo per sc…”

“Taci! Guarda!” L’agente 2 fa strisciare sul tavolo un’altra foto e la ferma sotto il suo naso. Ritrae un chirurgo con camice e strumenti. Sembra si sia appena tolto la mascherina e sorride soddisfatto, come se avesse concluso un’operazione con successo. “Lo riconosci? Beh, a dire il vero non dovremmo nemmeno chiedertelo, ma oggi siamo più pazienti del solito.” L’uomo osserva inebetito e scuote il capo con le lacrime che ora gli bagnano il colletto. Un altro colpo lo raggiunge, stavolta dietro la testa. Il terzo lo afferra per i capelli, subito gli tira indietro il capo e gli sussurra: “Avanti, Prisley, rendiamo questo lavoro un po’ più semplice. Parla, ammetti che questo è il chirurgo che ti ha rifatto la faccia.” Il secondo interviene. “Berna 1997. Ti dice nulla?” L’uomo continua a ondeggiare il capo, stordito e si prodiga in continui lamenti. “Io…io non mi chiamo Prisley. Mi chiamo Kudok. E non ho quarant’anni, come dite voi, ne ho solo trentuno. E sono americano, non bielorusso, Cristo! Volete capirlo?” L’agente 1 si alza. La luce impedisce ancora di carpirne l’identità. “Ascoltate, stiamo perdendo tempo. Non ci resta che torturarlo e vedere fin dove regge. Anche non fosse lui, dovremmo comunque disfarcene, ormai ci ha visti.” L’agente 3 si gira verso di lui. “Hai ragione, attacchiamolo a quel cazzo di muro e vediamo se dopo un paio di estrazioni dentarie si convince.” L’uomo valuta per un secondo e agisce con inaspettata animosità. Infila la mano con precisione micidiale sotto la giacca del terzo. Ha notato poco prima, mentre aggirava la scrivania, lo scintillio della pistola sotto il vestito. La estrae con disinvoltura e fa fuoco centrando l’agente 3 all’addome. Quello si accascia e strilla a ripetizione. L’uomo punta l’arma sugli altri due. Spara a casaccio. La luce si spegne in un’esplosione, un corpo cade. Prisley corre fino alla porta, alla cieca, il buio lo circonda come un sudario. La riesce ad aprire, vede uno spiraglio di luce che illumina l’agente 1. E’ fermo, di fronte a lui. E’ Greg Sylvian, che con occhio invasato lo trafigge da parte a parte con uno sperone. Centra un rene. L’uomo perde ogni contatto con la realtà. Cade carponi, annaspa, non riesce nemmeno a gridare. Immediato torpore lo investe. Preme li grilletto, non sa quante volte. I proiettili rimbalzano non sa dove. La sua ultima speranza è di essersi portato dietro quel figlio di puttana.


TRACCIA 5 – COLLISIONI mATEMATICHE


La ragazza calva è sdraiata su un logoro giaciglio adornato da foglie d’alloro secche. Le voci di alcuni venditori ambulanti l’hanno tenuta sveglia tutto il tempo. Lascia vagare lo sguardo lungo le pareti della capanna di fango dove si trova. La superficie è irregolare dovunque, anche nel pavimento di terra battuta dove cresce un ciuffo d’erba ribelle che a Baba non è riuscito di estirpare. Indossa un saio nuovo, donatole dal suo ospite. Si alza e avverte un forte giramento che la costringe a sedersi. Attende qualche minuto e si massaggia i piedi e le spalle. Le stanno ricrescendo i capelli, o così le pare. Sente leggere punte sporgere dal cranio, ma sembrano ferme alla stessa lunghezza da un’eternità. Si decide ed esce dal rifugio guardinga e disorientata. Si trova su una strada sterrata assediata dalle innumerevoli bancarelle di un mercatino mediorientale. I compratori si ammassano presso i banchi e strillano rivolti ai mercanti, che a loro volta contrattano con incrollabile pazienza. Un tumulo di terra e feci svetta oltre le case che contornano la via. E’ enorme, alto decine di metri e circondato da nugoli di mosche in preda alla loro morbosa fregola da sterco. Baba le ha detto che sarebbe andato al tempio e non osa pensare che sarà quella la meta della sua ricognizione. Si ferma presso un venditore di armi e acquista una lancia con i pochi soldi rimastile. E’ di fattura primitiva ma assai funzionale e ben affilata. Si fa largo tra la gente e alcuni storpi allungano le mani su di lei nel tentativo di strapparle la veste. Sembrano privi di pelle, forse vittime di qualche tortura crudele. Li evita rapida e si concede un attimo di tregua infilandosi in un pertugio di viottolo, largo giusto per una persona. Una donna si sporge da una finestra sopra di lei e stende su un filo la pelle di un gatto. La vede e le sorride. Lei scappa e finisce invischiata di nuovo nel marasma. Altre mani la toccano, la cingono, la pizzicano e non riesce a individuare gli untori che la perseguitano occultati nella folla. Finisce casualmente in una piazzetta e camminando più libera arriva di fronte a un grosso emporio. Un imbonitore obeso e sudato vende schiavi a basso prezzo. Sono esposti in fila, nudi e colti da fremiti preoccupanti. Alcuni sono dei bambini e la sola donna è un’anziana smagrita che, impietosamente esposta, tenta di coprire le parti intime. I compratori tastano la merce con la rudezza che si riserverebbe a bestie da soma. Il mercante non smette di parlare un momento. “Comprate, sudici figli di vacca, comprate la feccia servente del buco del culo! Fatevi leccapiedi a pagamento, rendetevi lacchè senza rischio di tradimento! Datevi importanza e prestigio, mandria di bifolchi senza dignità!” E ogni potenziale acquirente si genuflette ai piedi del grasso imbonitore pregando di essere offeso. Alcuni si rotolano nella sabbia sozza della piazza chiedendo umiliazioni fisiche, ma due uomini dalla pelle scura che fiancheggiano l’obeso li allontanano di peso. La ragazza nota con sconcerto che chi compra viene sostituito allo schiavo e il servo venduto viene fustigato da uno dei due villici neri con violenza inaudita e sodomizzato a sangue dall’altro. Il trattamento eccita la folla al punto da spingere molti a violentare gli astanti. La calva si avvede troppo tardi del pestaggio rituale che si sta profilando e due mani la afferrano da dietro. Avverte un glande colossale entrarle nell’ano e grida colta da contrazioni dolorosissime. Ruota la lancia nella mano, rivolgendo la punta all’indietro e sferra un colpo preciso. Liquido caldo le investe la schiena, sente un urlo strozzato e un corpo pesante la schiaccia a terra crollandole addosso. Striscia nella sabbia, che le riempie bocca, naso e orecchie. Tossisce, annaspa, qualcuno le calpesta una mano ma resiste al patimento. Si allontana carponi dalla ressa e cerca riparo sotto la tenda di una bottega. Il turbinio della gente che si assale, si schiaccia e si avventa sull’emporio ricorda un termitaio dato alle fiamme. “Incredibile, vero?” La ragazza sussulta e istintivamente porta la lancia davanti a sé, ma solo ora si rende conto di averla abbandonata sul corpo del suo aggressore. Un uomo sulla trentina, con una grossa cicatrice sul labbro e con due incisivi rotti la osserva e le sorride. E’ vestito molto elegante, è di bell’aspetto e sembra avulso dal contesto che li circonda. “Chi sei?”

“Sono Prisley. E’ un piacere vederti. Baba mi aveva detto che saresti venuta in questa zona, ma mi sono ricordato solo all’ultimo che ogni martedì in questa piazza c’è la vendita di schiavitù e sono venuto a cercarti.” La ragazza lo perlustra con gli occhi e si trova attratta da quell’individuo. Si ricompone anche se sa di essere coperta di polvere e sangue. “Io sono Auge.”

“So chi sei. Mi piacerebbe parlare ancora per conoscerci, ma è meglio che ci muoviamo. Seguimi e tienimi la mano, non mollarmi mai.” Le porge la mano e lei la prende senza fiatare. “E soprattutto fidati di me, intesi?” Lei fa cenno di avere compreso, con sguardo quasi infantile e si avviano nel caos che li imprigiona a margine della piazza. Avanzano molto lentamente e l’uomo la porta lontano da un gruppo di pezzenti che si contendono una donna sfregiata tirandola, ognuno per un arto. Un capannello di beduini coperti da vesti scure li fermano per chiedere l’acquisto della donna calva e Prisley li ignora. Uno di loro gli punta una lama in faccia, ma lui prosegue imperterrito. Auge gli si fa più vicina. “Come puoi essere così avventato? Lo hai ignorato come fosse stato un innocuo bambino.” L’uomo le lancia un’occhiata di sbieco. “Gli ho infilato uno specchio sotto il mantello. Qui sono una rarità, non credo ci disturberanno più.” La ragazza si ammutolisce e pensa a quanto tempo è passato dall’ultima volta che ha osservato la sua immagine riflessa. Si lascia trascinare lungo le vie, oltre la piazza. Il marasma va diradandosi e le bancarelle sono sempre più sporadiche. Il tumulo è ora più vicino e riesce a scorgerne particolari prima celati dalla distanza. La superficie dell’enorme cono che svetta in mezzo alla medina è costellata di feritoie strettissime e da alcune di esse salgono densi fumi colorati, forse il risultato della combustione di incensi esotici. Nebbie d’insetti creano arabeschi nell’aria e si raggruppano a folate successive, creando forme misteriose, lettere, rune e caratteri in cirillico che stordiscono le membra di Auge, persa e ipnotizzata. La sua testa ciondola e gli occhi sono fissi su una figura rinchiusa in una gabbia a dieci metri d’altezza, appesa a una trave fissata fuori da una delle aperture. Sembra un uomo magrissimo e dalle gambe eccezionalmente filiformi. I soli polpacci sporgono, ma bastano per superare la lunghezza di un arto normale. La sagoma del capo è nascosta dall’ombra che copre il fondo della cella. Ormai sono a ridosso del torrione. Per duecento metri di raggio attorno alla costruzione il terreno è privo di edifici e capanne. Il vorticoso viavai di gente che si incrocia sulle vie che convergono nel tumulo dalle quattro direzioni cardinali ricorda il costante pellegrinaggio verso un luogo di culto. Auge avvista famiglie con carri appresso con stipata sopra paccottiglia d’ogni tipo e sistemati a mo’ di casa ambulante, vecchi monaci imbevuti nel vetriolo, tanto sfigurati da sembrare manichini di gomma, donne adultere prive di seni che espongono cicatrici immonde con orgoglio e tredici segugi colti da fregola inarrestabile che si strusciano sui passanti. E’ una visione tanto singolare, quanto ebbra e la ragazza si sente a tratti raggelare, a tratti ribollire l’anima per eccesso d’input emozionale. L’uomo la trascina, la sua mano un informe fungo esagonale privo di ombrello e secernente melassa collosa. Una delle entrate li fagocita ingorda e ondate di manichini privi di occhi, naso e bocca li annusano, li squadrano e li leccano ruffiani. Sono identici alla figura che ciondolava appoggiata alle sbarre della sua cella a mezz’aria. Sono lisci come glandi eretti e lo sfregamento delle loro informi teste produce rumore di plastica in collisione e afrore di petrolio grezzo. Sono una moltitudine e s’impossessano dei pellegrini appena entrati con l’arroganza di un’ape regina su fuchi omosessuali e indifesi. “Dove siamo, Prisley, dove…?” Lui la interrompe per sottrarla all’abbraccio di un manichino enorme, alto cinque metri e munito di braccia colossali. La strattona e la trascina lontano, scavando nel tumulto che si rimescola in volute imprevedibili. La fissa folle di desiderio. “Ci sono tredici ragioni per cui dovrei amarti, ma nessuna basta a sacrificarmi in settantuno parti di fecola indefessa come sedici e più statue di cenere che cadono al sole e si disseccano oltre il patio, in quella dimora che non ricordi ma che è ben scolpita nella mia mente.” Sangue a fiotti cola dalle sue narici, gli lorda le guance rase di fresco, la camicia griffata e la cravatta sgualcita, la giacca impolverata dal deserto e il setto nasale deviato in quella partita a hockey sul prato del giardino pensile di villa Guascone e un dito oblungo, privo di unghia e impronta digitale, lo stronca da dietro e così inaspettatamente che Auge strilla forte abbastanza da spolparsi i polmoni con vernice di vetroresina.


Greg allontana la bocca dal microfono. Lancia uno sguardo ansioso verso l’asettica freddezza della parete insonorizzata. Una voce lo raggiunge, come previsto. “Rifacciamo quest’ultimo bridge, era una merda, Greg. Spero tu sia d’accordo.” Sylvian sistema le cuffie che ha sulla testa e appronta le labbra al canto.

Racconto - Inumanimazione


Sono ore che guido. Le mani abbarbicate al volante, la fronte secca e il naso paonazzo mi rendono inclassificabile. Giuda Libertino è al mio fianco, raggomitolato su sé stesso e alla ricerca della posizione fetale perfetta. I filari si susseguono imperterriti e il paesaggio marchigiano scorre sotto il culo della mia auto, interminabile. Schiere di colline adombrate dall’incombente temporale mi fronteggiano belligeranti e l’autostrada sembra un vorace invertebrato in catatonica attesa e incurante letargia post-moderna. I frenetici globuli rossi di questa colossale arteria secca scorrono filandosi nel giorno del poi e le mie palpebre vacillano sotto il peso della stanchezza che da Bologna mi attanaglia. La virtuale barriera corallina della costa adriatica, meretrice e madre del suo popolo bastardo, si profila sotto cirri trafitti dai vermigli stocchi del sole che saluta questa terra ingrata con radiazioni coobate. Caesar Mandela intona “Jackass, u won’t rape me tonight” con sapiente zelo e Giuda si sveglia all’ennesimo trillo del cantante afroamericano. Si stiracchia con fare felino e si guarda attorno stordito. “Dove siamo? E…che ore sono?”

“Siamo nelle Marche e sono le sette…credo” Mi osserva incerto un momento, per lasciare poi spaziare lo sguardo sui declivi insanguinati che si stagliano alla nostra sinistra. Mi aspetterei il volo frenetico di una strega perdersi nel cielo sozzo d’alba, il galoppo di un unicorno fianco a fianco con il nostro destriero di metallo, il pensieroso cipiglio dell’orso Mantegna alle prese con lo svisceramento di un alveare o la regale minuziosità di Pellagra l’orafo, armato di cimento e metalli preziosi, ma tutto questo è anni luce da qui o forse dentro di noi, relegato in un buio pertugio chiamato “trapasso verso un metafisico e laico mondo di pene o gioie o vie di mezzo”.

“Siamo quasi arrivati, vero?” La voce di Giuda mi giunge tremola. “Sì…manca mezz’ora” La sua faccia è stampigliata sul vetro, asettica seppur deformata. “Quando arriviamo tu dormi che io vado a prendere un qualcosa da mangiare, ok?”

“Come vuoi. In effetti sono a pezzi e la testa…beh, lo sai, è un po’ altrove”. Sbuffa e cambia posizione stringendosi nelle braccia pelose, muovendo la chioma crespa e color seppia. “Lo so bene, lo so. E chissà l’accoglienza…a che ora è?”

“Alle undici, alla chiesa dello…Stilnovo?” Ridacchia e si allunga nel tentativo di dare tregua ai muscoli rattrappiti. “Tu di chiese ne sai, eh?” Riesco a sorridere e tento di ripassare le fasi salienti di una messa. Dunque, io sono cattolico – io sono battezzato – la messa celebra ehm, il rito della…la resurrezione…il dialogo con Dio…? L’entità che bestemmio e poi mi tocco i maroni, non so se avete in mente e poi alzo lo sguardo al cielo e chiedo mentalmente scusa e poi mi dichiaro ateo alle cene dell’università perché fa figo e le ragazze mi osservano con quell’aria vagamente interrogativa e io cerco di non fargli capire che, beh, in fondo in fondo, Gesù lo tengo appeso nei recessi più reconditi di quell’anima così ideologicamente sputtanata che tanto ho negato di avere. E poi, ci sono cose nella vita che ti fanno scendere a compromessi con mister “io non credo si fottano tutti io mi drogo e bevo e mi tiro tre raspe al giorno e mangio merda nei fast food delle multinazionali, sono uno squalo che divora e non da, divora e non da…”

Mani che scuotono. Mani che MI scuotono. Le mani DI GIUDA che MI scuotono. Mi sveglio di soprassalto, un Archimede ridesto nella vasca da bagno. Eureka. Raddrizzo il volante e torno nella corsia centrale. L’auto, poco prima alla mercé di mister Orfeo Bragaloni, ritrova controllo. Giuda mi fissa incredulo e la sua mascella da centurione schiocca ritmica, quasi a tempo di Caesar Mandela, il negro che al momento bercia nelle mia orecchie “U woke up, u finally woke uuuuuuuuup…”. “Ti eri abbioccato dibbrutto, cazzo che strizza mi hai fatto prendere!” Scuoto la testa e mi impongo una posizione la più scomoda possibile. “Che ti aspettavi, mongolo…se avessi la patente tutto questo non si sarebbe verificato. Forse per i sessantadue anni arriverà?” Lo scorgo solo con la cosa dell’occhio ma di sicuro ha alzato gli occhi e sta proferendo labiali offensivi. Circa l’effettiva esistenza di un legame fra e me e lui mi sono interrogato spesso e ho ottenuto solo risposte ottenebranti, vaticini di dubbio gusto e utilità. Siamo capitati al mondo nello stesso tempo e nello stesso luogo e la contingenza ci ha uniti nel tentativo di sentirci meno soli. Succede fra amanti, figurarsi fra provinciali compagni di bagordi. E’ un rollio in perenne ascesa e presto ci farà cadere dall’amaca chiamata apatia su cui abbiamo parcheggiato i nostri culi da universitari squattrinati e senza prospettive sentimentali e lavorative. Presto il contado chiamato rimorso ci assesterà una secca pedata nel fondoschiena e ci manderà a lavorare la nuda terra riarsa dal sole per tre carlini e un tozzo di pane. Presto madame Tempo buttato verrà a riscuotere ciò che le spetta e senza compassionevoli liturgie applicherà il protocollo mai scritto ma ben rodato del riciclaggio del cazzone di turno. Ed essere felici, allora sì, diventerà dannatamente mortificante.

Scorgo l’uscita per Pesaro e la imbocco con l’atroce dubbio che sia quella sbagliata. Giuda dorme di nuovo. E’ bello alternarsi. Io alla guida, lui alla navigazione, io alla guida, lui nel mondo dei sogni, io alla guida, lui al cesso degli Autogrill, io alla guida, lui alle prese con l’autoradio. E fuori dall’auto sembra che la dinamica debba ripetersi, sconvolgendo le mie convinzioni di essere una persona versatile e trasformista. Estraggo una caccola sanguinolenta dalla narice destra e la spiaccico sui pantaloni nuovi del mio amico. Quella rimane lì, perplessa e informe e io mi compiaccio. Questa non ve l’aspettavate, cani.

Percorro alcune strade nazionali mai viste prima, seguito dalle nubi gravide che hanno stampigliato sopra in chiaroscuro “rottura di cazzo in arrivo per voi fottuti bipedi terrestri”. Forse mi hanno visto leggere, perché rade gocce cominciano a costellare il parabrezza e le vedo scorrere lasciando ragnatele di scie umide. Estraggo Mandela dallo stereo con stizza e getto il CD sul sedile posteriore. Inserisco i Goblin e l’atmosfera si tinge di Argento filtrato dal bigio chiarore del cielo coperto. Il nostro ingresso a Pesaro è quantomai anonimo, dato che non c’è anima viva a testimoniare la nostra venuta e le case non emanano nulla dei ricordi dell’estate scorsa. Mi sembra di essere in un altro luogo, percorso da ombre inquiete e smemorate, un non posto in cui fotogrammi senza palpebre, mescolati a mo’ di zuppa d’oblio e per questo vividi e dolorosi, si susseguono in un montaggio sbagliato; sì, perché quelle immagini non mi appartengono, non le voglio più dentro di me, mi violano, mi strappano alla mia verginità catartica. Sono già logoro seppur giovane, perché non ho più appuntamenti a cui valga la pena di arrivare puntuale, non ho più promesse da mantenere, tanto fa lo stesso per me e per chi mi sta attorno. E poi questo impegno, ma chi se lo voleva cagare. E infatti siamo in fottuto anticipo. Volete che ve lo dica? Se non fossimo partiti nottetempo, sbronzi ed ebbri di coca, qua non ci saremmo mai venuti e questo dramma forse non esisterebbe e tutto sarebbe ancora come l’anno passato. Forse chiudendo gli occhi e andando a ritroso, a braccia spalancate e con il capo ripiegato all’indietro, sull’autostrada per Modena, lasciandosi prendere a sferzate dall’aria assassina e sperando che mi purghi alla grande, forse Vanessa tornerebbe a vivere e forse non sarebbe troppo tardi e potrei farlo seduta stante, senza avvertire Giuda, ora preda del sonno, e il suo menefreghismo così ben ascoso.

Accosto quasi alla cieca e posteggio in uno spiazzo sgombro con il fiato corto e il cuore che impazza indomito nel suo angolino di torace torturato. Adagio il capo sul volante e trattengo le lacrime, me le deglutisco tutte, una alla volta, conservo i liquidi. Anche perché ora riuscirei a piangere solo vodka frammista agli umori vaginali della troia che abbiamo caricato ieri sera dopo la discoteca. Mi sento e sono sporco, di terra, mascara e birra e la cravatta lo testimonia impietosa, un vergognoso vessillo portato con poca dignità. Alzo lo sguardo dopo quelli che mi paiono pochi minuti. Le ombre sono cambiate attorno. L’albero che prima si proiettava sulla nostra auto, ora disegna più distintamente la sua sagoma sull’asfalto e vedo gente che si avvicenda presso un gabbiotto di plexiglas e metallo che ricorda la pacchiana tecnologia dei telefilm anni 60. Tutti estraggono e inseriscono carrelli vuoti, ne spingono altri colmi, chi più chi meno goffamente, presso le auto che ora ghermiscono questo formicaio di vetroresina arroventato del sole che si fa beffa di noi dal varco apertosi tra le mura di cirri sodomiti. Giuda russa sommessamente e sembra non curarsi del bambino che lo osserva a un metro di distanza, da dietro il vetro. Sua madre sta caricando la spesa nel bagagliaio e sembra non ravvisarci. Il bamboccio invece fissa Giuda con quel cipiglio involontariamente sfrontato che solo i cuccioli d’uomo sotto i dieci anni e particolarmente rompicoglioni riescono a tenerti appiccicato addosso per istanti interminabili. Si accorge che lo sto osservando a mia volta e un moto di cagarella attraversa lo stronzetto. Non sai che mamma non apprezzerebbe? Lo sa, lo sa, lo leggo nei suoi occhietti e nel broncetto da avvocato. Sto pisciasotto si scoperà un sacco di fighe, oh sì, oh sì, lo vedo nel suo DNA e dal sedere della genitrice che proprio ora capeggia all’altezza del mio sguardo malizioso. Una mano da trentacinquenne ben tenuta guida il bambino con grazia e lo fa accomodare sul sedile posteriore. Quello mi tiene lo sguardo puntato nelle iridi e quasi mi guardassi allo specchio mi ravvio una ciocca di capelli. Il bamboccio mi spiazza e fa la stessa cosa e proprio nell’istante in cui l’auto parte celandomelo alla vista, mi pare di scorgere l’ombra del sorriso beffardo con cui quel bastardello irretirà un sacco di coetanee e con una smorfia rasente sarcasmo mi chiedo come cazzo potevo essere alla sua età. Sbadiglio sonoramente e stiro gambe e braccia per un po’, in attesa che i crampi rinuncino ai loro fetentissimi agguati. La mia faccia è un campionario di umori untuosi di cui desidero liberarmi al più presto. Scuoto leggermente il mio amico, che tra lamenti e versi inarticolati si desta e si raddrizza esordendo con uno sguardo tra il tardo e l’infelice. Flette il collo nel tentativo di fare una panoramica del posto e si schiarisce la voce, ancora arrochita dalle ore di sonno. “Dove siamo?” Io mi sto pigramente pulendo le unghie. “Nel parcheggio di un supermercato, a Pesaro”

“Fantastico! Grande Lore! Siamo già arrivati.”

“Già…ascolta…”

“No, no, senti…” Apre la portiera ed esce con insperata prontezza. “Vado a prendere da mangiare, tu resta qui.” Guarda l’orologio e un’ondata d’ansia lo investe stordendomi. “Occazzo!! E’ tardi! Arrivo subito…dobbiamo essere là tra un’ora!” Lo vedo correre via con la solita andatura sgraziata da canide in calore e dopo un po’ distolgo lo sguardo, turbato dall’imminenza del nostro appuntamento.

Quando giungiamo presso la chiesa ho gli Isis che pulsano nelle orecchie e delineano scenari apocalittici nel mio immaginario riquadro visivo. Giuda sgranocchia svogliato delle romelline e a tratti rovista nella spesa per pescare una lattina di succo d’ananas. Fermo il mezzo nello spiazzo antistante e abbasso il volume in fretta, dato che il mio passeggero spalanca la portiera appena ci fermiamo. Scendiamo e adocchiamo subito il drappello di persone vicino all’entrata della parrocchia. Osservo Giuda un momento per poi indirizzargli un’occhiata carica di panico. Siamo ridotti uno schifo, spettinati, lordi di liquidi alcolici e con le camicie simili a cartine geografiche. Pare che mani d’esploratore abbiano vergato dozzinali mappe di continenti sconosciuti sui nostri vestiti e non mi sorprende che la cosa non turbi il mio amico, troppo preso a leccarsi il sale delle arachidi dalle dita. Alza gli occhi su di me e risponde al mio sguardo con fare perplesso. “Che c’è? Cosa c’è da guardare?” Io scuoto il capo. “Siamo dellemmerde e tu neanche te ne accorgi. Datti un tono, stiamo andando a un funerale.” Giuda si piega indietro, compie qualche passo scoordinato e si appoggia all’auto ridendo. “Questa è bella…ah sì, questa è bella, Lori…” Si fa serio e mi fissa in posizione scomposta. “Cazzo ti credevi? Che dopo la serata di ieri saremmo arrivati qua con un briciolo di dignità ancora incollato addosso?” Abbasso lo sguardo imbarazzato e fisso le punte delle mie scarpe, improvvisamente così attraenti, lisce e perfette. Giuda rincara la dose. “Non…non pensare che questo sia un gioco per me, che io…” si passa una mano sulla faccia bovina e si massaggia le guance ispide. “…io prenda ogni cosa alla cazzo. Andiamo, facciamoci sta figura dimmerda ma ti garantisco che sarebbe stato peggio se non ci fossimo proprio presentati.”

“Ho i miei dubbi…ho idea che stiamo facendo una cazzata colossale.” Il mio amico alza il volto al cielo e per un istante assume le sembianze di un Cristo. “Avanti, Lori.” Mi viene incontro e mi cinge le spalle con un braccio sudaticcio che probabilmente lascerà un alone sulla mia giacca. “Mal comune mezzo gaudio, no? Saremo in due a essere delle merdazze, là dentro.” Avvicina il muso alla mia faccia e se la ridacchia sommessamente. Io sogghigno e cerco di crearmi un’immagine mentale della situazione in cui mi troverò tra poco ma la sola idea è sufficiente a spaurire ogni ipotesi e lascio la mente fluttuare nel suo brodo primordiale d’imbecillità adolescenziale. Mi libero dalla stretta di Giuda, mi avvio con le mani in tasca verso la chiesa e lui mi tampina alle terga trotterellando goffamente. Non oso sondare il gruppo di convenuti, anche solo furtivamente, alla ricerca di eventuali conoscenti. Raggiungiamo la porta spalancata e assediata da informi corone di fiori emananti afrori da soap opera e lì ci blocchiamo. Sento una mano appoggiarsi sulla mia spalla e solo allora alzo la testa. E’ Jessica, una ragazza con cui uscivamo anni prima, lì a Pesaro. E’ ingrassata alla grande e il suo viso a mongolfiera è annaffiato da copiose lacrime. Me la trovo addosso prima di riuscire a proferir parola e non capisco quello che mi dice, stapputtana. Mi inonda le orecchie di singulti e io comincio a sciogliermi, sta scorza d’uomo che dell’Africa nera si fece baffo nel mese del mai. La stringo a mia volta e comincio a piangere pure io. “Lori…Lori…mi…spiace…” Avverto le sue parole e mi chiedo di cosa si dispiaccia. Di cosa ti dispiaci, latrina, Perdio! Vanessa non era niente, nulla, capisci? Non mi senti? Smettila! Resto abbarbicato alla grassona e mi accorgo di averne bisogno perché continuo a singhiozzare a ruota libera e quest’idrante oculare che ho tenuto cocciutamente serrato per giorni esplode in un’iridescente arcobaleno di liquide evoluzioni trafitte da unghie laccate di viola, massì, quelle di Vanessa. Quando mi teneva le mani e mi diceva sei il mio schiavetto e mi pareva di indossare la livrea dei carcerati e di vedere Foucault penetrarmi con sguardo indagatore dall’alto del panopticon, dito puntato e manganello alla mano, pronto per l’ennesima seduta d’ergastolana eresia. Caesar Mandela aveva sempre avuto da ridire, soprattutto quando facevo sesso con lei in auto e tra le unghie viola spuntavano le liriche del negro e mi coglievano alle spalle con frasi pungenti del tipo your love ends tonight, your lust lasts forever, foooooreveeeer e io mi vedevo costretto a venire spruzzando odio in sede d’ufficio.

Il resto è già passato. E’ già passato il penoso incontro con la madre, accompagnata dal suo dolore, nascosto dietro lenti affumicate. E’ già passata la messa. Ed è già passato il feretro. Soprattutto quello. Non è passato il senso di colpa. Ed essere venuto qui mi sembra ora così pretestuoso. La gente sta lasciando la chiesa con mani giunte e capo chino. Esco e cerco di evitare Jessica e tutta la combriccola di suoi amici. Scorgo Giuseppe, che l’anno scorso si era sbronzato con una bottiglia di Pampero rubata da lui stesso all’Esselunga sotto casa. Susanna, che teneva un gatto bastardissimo in casa, sempre pronto a tendere agguati agli ospiti, per poi rifugiarsi in qualche introvabile pertugio. Ruggero, lo stronzo che non mi aveva dato i dieci euro per la grigliata organizzata in spiaggia. Non voglio nemmeno sfiorarli, tanto mi sento vulnerabile. Forse uno di loro mi ha avvistato, nonostante stia tentando di mescolarmi a un gruppo di gente di mezza età. Mi trovo davanti un uomo, alto e robusto, con dei lineamenti incredibilmente simili a quelli di Vanessa. Dev’essere il padre. Non l’avevo mai visto e un moto di impotenza mi coglie con vampate di calore. La vista mi si annebbia e altre lacrime annaffiano gli occhi già gonfi. Stringo le spalle e tento malamente di trattenere i singhiozzi. Sono l’essere più inutile e fuori posto di questo pianeta. L’uomo mi osserva interdetto, dato che sono incapace di spostarmi per liberargli la strada. Credo abbia capito. Vedo che anche lui piange, in silenzio, con dignità, però. Mette una mano poderosa sul colletto della mia giacca, lo sistema e mi dà un buffetto sulla guancia. Provo una vergogna nuova, acuta, mai sperimentata prima e il senso di pochezza che mi pervade prevarica ogni altra sensazione, persino la commozione. Serro le palpebre forte, quasi volessi farmi scoppiare questi dannati occhi che si ostinano a mostrarmi che pezzente sono. Sento passi lenti attorno a me, passi di piedi racchiusi in scarpe costose, di marca, con tacchi alti, solenni, di cuoio. Inspiro forte e spalanco le palpebre in fretta, rizzando il collo come uno studente colto in flagrante. Nel parcheggio di fronte alla chiesa non c’è più nessuno. Solo un sozzo e vizioso prodotto tipo di blandezza esistenziale che se ne sta fermo con i pugni serrati e lo sguardo tra l’accigliato e il colpevole. Giro su me stesso, guardando in ogni direzione ma non trovo nessuno a compatirmi, nessuno che abbia anche solo uno sguardo di rimprovero da regalarmi. Sono riuscito nella mia capricciosa e vile missione di passare inosservato ai più e ora mi mordo le labbra alla ricerca del mio sangue, l’unico che possa pagare questo debito di umanità che ho verso chiunque abbia incontrato nella mia vita. Mi dirigo verso l’auto e mi seggo al posto del guidatore, tenendo i piedi appoggiati sul selciato. Mi tolgo giacca e cravatta, slaccio i polsini e mi arrotolo le maniche per trovare tregua al caldo che sta aumentando sempre più. Uno squarcio tremendo nel cielo lascia filtrare i raggi solari, che mi trafiggono impalandomi al sedile. Mi chiedo dove sia Giuda, quel pusillanime bastardo che mi ha abbandonato nel momento del bisogno, sempre pronto a pontificare massime sulla fratellanza d’intenti, per poi sparire sgattaiolando via da bravo Iscariota quale è. Mi lascio guidare dall’intuito e, adocchiato un bar poco distante, su una via adiacente il piazzale, mi decido ad alzarmi e fare due passi in quella direzione. I dubbi vengono subito fugati, dato che trovo Giuda appollaiato presso il bancone, con un amaro davanti al muso peloso e un pacchetto di Winston rosse in mano. Il locale è un vero schifo, odoroso di sigarette scadenti, alitosi e vecchi elenchi telefonici. Una vetusta cabina di metallo è piazzata alla bene meglio in un angolo. Dentro sono pressati un uomo e una donna arabi, alle prese con una telefonata molto impegnativa. Berciano gesticolando convulsamente e si strappano la cornetta di mano a vicenda. Il mobilio, tutto risalente agli anni sessanta, ispira repulsione estetica ma, allo stesso tempo, una dolorosa familiarità fisica. Un drappello di vecchi, appostati a un tavolo di colore non ben identificato, gioca a carte e monopolizza l’attenzione degli altri clienti con versi in dialetto stretto. Un tipo dall’aria cirrotica, poco distante dal frigo delle birre in bottiglia e con indosso una coppola sformata, sorseggia quello che pare un limoncino di bassa qualità e mi fissa con arreso disinteresse per la vita. Giuda gioca con una Winston, passandola tra le dita, e poi l’accende. Fissa l’orologio sopra le mensole dei superalcolici e sbuffa sommessamente, guardando il culo della barista quando si china a prendere una bottiglia dal frigo. E’ una bella biondina sui vent’anni ma sono accecato dall’odio e non mi soffermo a osservarla.

“Brutto stronzo!” Il mio cosiddetto amico si gira con occhi sgranati e quasi fa cadere l’amaro dal bancone con il gomito. “Ehi!” Sorride imbarazzato. “Qual buon vento, Lori!” Mi seggo di fianco a lui e lo fisso, incazzato più che mai. “Sei sparito. E questo ti classifica come stronzo. Lo sai, vero?”

Spalanca le braccia e alza gli occhi con vittimismo da professionista. “Ossignore! Cazzo dovevo fare!? Pensavo preferissi restare solo.”

“Come no!? E quelle stronzate sul mal comune, mezzo gaudio?”

“Cose del passato, Lori.”

“Del passato un cazzo!” Mi accorgo di avere alzato troppo la voce. I vecchi interrompono per un attimo le loro serrate disquisizioni sulle tattiche migliori per vincere e si girano affamati di gossip. L’uomo arabo si sporge dalla cabina stizzito. “Silensio, per favore, ammigu!” Mi fissa troppo a lungo e il mio sguardo non deve essere amichevole perché sembra contrariarsi ancor di più e rientra tenendomi gli occhi incollati addosso.

“Mi hai tradito e queste sono cose del presente, mio caro!” Addito Giuda e lui si scosta irritato.

“Io non ho proprio tradito nessuno. Vanessa quasi non la conoscevo, Lori! Cazzo rompi! Mica me la scopavo io!”

Questi sono momenti in cui tutto diventa distante. Immagino che chiunque compia gesti estremi viva la cosa con chirurgico distacco e sorretto da ettolitri di adrenalina che affoga, almeno momentaneamente, ogni tentennamento e rimorso. E scommetto che, mentre compie l’atto in questione, l’unico suo pensiero sia: “Non sono un violento, sono solo una persona normale che gli eventi hanno costretto a fare ciò che sta facendo”. La normalità deviata da un’ingiuriosa contingenza è la panacea di tutti i sensi di colpa più atroci. E io non faccio eccezione alla regola. Mentre spingo Giuda giù dallo sgabello e lo spedisco carponi sul pavimento sto forse pensando la stessa cosa. Mentre la mia mano lo colpisce ferocemente al volto e avverto il duro del suo zigomo e un dolore lancinante alle nocche, forse, ma solo forse, il mio cervello elabora velocemente le stesse panacee. Mentre esco correndo dal bar e mi do alla macchia ansimando come un criminale con i brigadieri alle terga, il mio ammasso di neuroni impazziti si inseguono isterici alla ricerca di una giustificazione a ciò che ho appena fatto. Con un’ultima fugace occhiata scorgo i due arabi uscire increduli dalla cabina, i vecchi gridarmi dietro frasi disarticolate dimenando le loro enormi mani callose e lo sbronzone vicino al frigo ridersela sotto i baffi. Lo stronzo deve aver frequentato questo cesso di posto per vent’anni solo in previsione di questo momento.

Ora sto correndo per la strada, a perdifiato. Sono circondato da bassi edifici contornati da portici stretti, tutti abbastanza nuovi. Non mi guardo alle spalle e mi auguro di non trovarmi più di fronte Giuda, quel Caino, quel salasso divoratore di buone intenzioni. Non mi fermo per diversi minuti. Vedo un negozio di musica, sulla destra e mi avvicino, rallentando con i gomiti alti, la fronte sudata e un’espressione sconvolta. Mi duole lo stomaco e la schiena, le gambe sono indolenzite e mi gira la testa. Tutto il bere e lo sniffare di ieri notte mi ha ridotto da schifo e la spossatezza che ora mi pervade è la giusta nemesi di tanta dissolutezza. Incident at Neshabur riempie l’ambiente del negozio di un’anacronistica atmosfera a tinte gialle e rosse, annaffiata di Tequila sunrise e altra roba esotica, davvero fuori posto. Mi affaccio dall’entrata e osservo la strada per un po’, alla ricerca di qualche vecchio da osteria con forcone e fiaccola in mano a caccia dell’ennesimo eretico. Sono erga omnes e distante da ogni possibile redenzione. Non mi resta che la fuga, indomita ed eterna, vile e maledetta.

“Scusa, posso passare?” Mi giro lentamente, corrucciato e perplesso. Una ragazzetta, massimo sedici anni, mi fronteggia, capo leggermente chino e posa sbarazzina, con un CD in mano. E’ di Patty Smith. Ho sempre pensato che solo gli eroinomani ascoltassero Patty Smith ma lei non ha l’aria della tossica, no di certo. Ha una calzamaglia nera sulle gambe secche da adolescente, una cintura con borchie di metallo e una maglia dei Cure di due taglie più grande, tagliata all’altezza del collo. Il viso è proprio carino, acerbo, interrogativo e pretenzioso come quello delle stronzette che affollano i locali rock per giovani rampolli depressi. Ci fissiamo per un po’ e lei abbassa lo sguardo sorridendo. Con una mano si copre la bocca e torna a guardarmi di sottecchi, lasciando ondeggiare le spalle. Oh Cristo! Sono attratto da una bamboccia di dieci anni di meno. Mi faccio da parte e mi schiarisco la gola. Inarco un sopracciglio e torno a controllare la via, timoroso che questo momento di distrazione abbia dato modo ai contadi di scovarmi come un vampiro sorpreso nel suo sepolcro. Rido delle mie paranoie e mentre la ragazza mi passa accanto, noto che sembra incuriosita dalla mia espressione da completo imbecille. La guardo allontanarsi con un’andatura da finta diva dark. Mavvaffanculo! Però mi piace, me la scoperei, eccome. Non l’ho mai fatto con una più giovane e sarei curioso di giostrare la cosa a mio piacimento. Scuoto il capo e mi immergo nella musica di Santana, scartabellando pigramente i CD sugli scaffali. Vediamo. Volevo prendere qualcosa di Satriani, l’ultimo, magari. Tanto, quel mongolo di Giuda, sempre pronto a smerdarmelo ogni volta che apriva il suo inutile orifizio contornato dalla faccia da cazzo più stellare del pianeta, non è più nei dintorni. O almeno spero. Immagino che al momento stia smontando meticolosamente la mia automobile. No, oh no, lui farebbe qualcosa di ben più plateale. Utilizzerebbe un cartello stradale estirpato dal selciato con la sola forza dei suoi muscoli scimmieschi per percuotere la carrozzeria, il tutto di fronte ai passanti inorriditi che non oserebbero avvicinarlo, data l’aura di bestialità che lo circonderebbe. Un lupo mannaro emiliano a Pesaro, un leviatano inarrestabile, che subito dopo correrebbe verso l’edificio più alto della città per compiere l’ultima drammatica, beh, diciamo tragicomica scalata verso una salvezza ormai irraggiungibile. Mi piacerebbe essere là, quando questo avvenimento sconvolgerà la gente del posto, ma ho un appuntamento alle quattro dal dermatologo, a Modena. E sono un fottuto salutista.